INTERVISTA CON UN UOMO (RANDOLFO PACCIARDI) CHE HA ABBANDONATO QUESTO MONDO – PRIMA PARTE
Per gentile concessione dell’amico Antonio de Martini, che ringraziamo, pubblichiamo una intervista virtuale a Randolfo Pacciardi, nel trentunesimo anniversario della sua morte, con brani tratti dagli atti parlamentari da Marco Nese, per lunghi anni inviato de “ il Corriere della sera”.
La pubblichiamo in due fasi perchè essendo molto lunga non vogliamo stancare i nostri lettori, ma soprattutto perchè l’intervista necessita di una particolare attenzione.
Come scrive l’amico de Martini nella sua breve introduzione ” La denuncia che ne risulta, è identica a quella puntualissima che Mazzini fece descrivendo la degenerazione dei regimi politici, in uno scritto del 1870 dal titolo “L’agonia d’una Istituzione”. Nulla è più fatale ad una Istituzione morente “che la crescente coscienza della sua inutilità: gli uomini – osservava Mazzini – seguono volonterosi l’Autorità, ma non un cadavere d’Autorità. A questo punto la fazione, la setta diventa Scuola. (…) Illusa dal fatto degli uomini che adorano l’ordine per interessi e paura, l’Istituzione crede intanto d’avere il Paese con sé; e, al primo insorgere d’una opposizione, s’irrita, oblia la necessità di prolungare l’inganno e inalbera apertamente una bandiera di resistenza. Quel giorno è solenne conferma della condanna, e i rintocchi dell’agonia crescono più frequenti e vibranti”. Parole che prefigurano l’Italia che stiamo vivendo.
INTERVISTA CON UN UOMO CHE HA ABBANDONATO QUESTO MONDO
PRIMA PARTE
Intervista virtuale di Marco Nese
Ho fatto decine di interviste. Forse centinaia. Mai però mi era capitato di dialogare con un uomo che non è più fra noi. Ma è possibile ottenere risposte da chi ha abbandonato questo mondo? Sì, è possibile se quest’uomo ci ha lasciato azioni coraggiose e comportamenti esemplari, se di lui sono rimaste parole chiare che rivelino senso morale, pensiero cristallino e una fede mai tradita.
Tutte qualità che descrivono la figura e la personalità di Randolfo Pacciardi. A volte le sue parole cristallizzate negli atti suonano perfino profetiche. E allora ascoltiamolo.
Ecco, mi pare di vederlo, in piedi, statuario, a Montecitorio nel 1963 quando in aula si discute della formazione del governo di centrosinistra. Sentiamo cosa dice.
“Il mio discorso è di netta opposizione a questo governo. Ho visto un battaglione di ministri e sottosegretari, ne avevamo dappertutto, davanti, di fianco, di dietro, invadevano tutta la Camera. Mentre domandate austerità al Paese, date scarsa prova di senso dello Stato presentandovi con una compagine così complessa e numerosa. Mi è venuta in mente la dea Artemide che era rappresentata non con due seni, ma con parecchi filari di seni, credo fossero venti, un terzo di questo governo. Ho pensato che quella fosse proprio l’immagine dello Stato come se lo prefigura il governo di centrosinistra. Cioè come un dispensiere di latte per tutti”.
Mi perdoni, onorevole, capisco che il centrosinistra non le piace, ma le chiedo di precisare meglio questo concetto del latte per tutti.
“Significa riempirsi di debiti. I figli e i figli dei nostri figli pagheranno per i debiti che fa questo governo. Un governo con programmi a lunga scadenza per cui chi governerà in seguito avrà solo il compito di amministrare i debiti. Anche le industrie si trovano di fronte a questo dilemma: o vendersi allo straniero, come in gran parte sta succedendo, oppure condannare l’Italia a essere la cenerentola del progresso economico europeo”.
Da questo deriva la sua opposizione?
“Ma certo. Ci opponiamo alle statizzazioni, nazionalizzazioni, programmazioni, tutte coercizioni. Chi vuole la sua redenzione, se la conquisti. La leva del progresso, della civiltà è affidata ai cittadini e non si deve aspettare dallo Stato”.
Lei mi perdonerà se a volte riassumo un po’ il suo discorso. Lo faccio solo per chiarezza e brevità. Dunque, questo governo di centrosinistra al quale lei si oppone è presieduto da Aldo Moro. Mi sembra di aver capito che lei aveva stima dell’uomo, una stima ora svanita.
“Persona colta, Moro. Tempo addietro usava un linguaggio diverso, parlava in modo semplice, usava parole chiare. Per mettere insieme un governo dove siedono cattolici e socialisti ha faticato un mese ed è riuscito nell’impresa inventando un linguaggio nuovo, fumoso, che dice e non dice. Gliel’ho rinfacciato, gli ho detto: questo vostro incedere con passo felpato onorevole Moro fra Cristo e Satana avrà ripercussioni che forse voi non immaginate. Avete creato un vostro stile del tutto diverso da quello di dieci o quindici anni fa. Avete imparato a dire cose che non dicono niente, o cose polivalenti che possono essere interpretate in cento modi. Per interpretare i vostri discorsi sarebbe necessaria una classe di sacerdoti o di tecnici, come si faceva nell’era pagana per interpretare gli oracoli o i responsi delle sibille”.
E le persone comuni cosa capiscono di questo linguaggio oracolare?
“Niente. Siamo in presenza di una classe politica che si sta sempre più insensibilmente allontanando dal Paese. Portano nello Stato i cavilli della curia. Siamo pressappoco ai regimi parlamentari del medioevo”.
Quei primi governi di centrosinistra non sono durati a lungo. Un paio d’anni.
“Sì, ed hanno aggravato la situazione economica. Hanno creato una tremenda incertezza negli operatori, hanno creato una crisi cosiddetta congiunturale. Un biennio di centrosinistra ci ha lasciato un disastro. E Moro lo ha ammesso. Il 4 agosto 1964, quando ha spiegato le ragioni della crisi del suo governo, è stato onesto. Ha detto la verità. Un discorso malinconico ma chiaro e serio. Ma come se ci presentasse l’inventario di altri governi, non il suo. Non si è mai visto che i giri di vite fiscali siano un incentivo alla produzione”.
In quell’occasione, lei fece notare con disappunto che l’arrivo dei socialisti al governo aveva penalizzato i liberali.
“Un vero e proprio ostracismo al partito liberale. Quell’antiliberalismo segna un rigurgito di vendetta storica contro il nostro Risorgimento. Il partito repubblicano non può rassegnarsi a fare da prezzemolo in questo minestrone clerico- socialista. Vorrei ricordare che De Gasperi allontanò dal governo comunisti e socialisti, il Paese gli credette e la Dc ebbe la maggioranza assoluta”.
Una Repubblica da riformare. Ci sono le condizioni?
“C’è qualche cosa che si muove in questa Italia che sembrava infrollita e rassegnata dinanzi alle bubbole buddiste di Aldo Moro e di una classe politica che si crede dirigente e che non è altro che rimorchiata”.
Dando vita a Nuova Repubblica, cosa si proponeva?
“Innanzitutto ricostruire lo Stato italiano ridotto a una condizione di poltiglia che giorno per giorno si decompone: pensiamo a uno Stato semplificato e ordinato, decente e onesto, pulito, controllato, che sia il supremo regolatore della convivenza di tutti gli italiani. Enti, uffici, posti di comando, stanze dei bottoni vengono distribuiti con nauseante imbarazzo alla luce del sole. Il centrosinistra ha elevato a regime il sottogoverno. Bisogna disfare le sette per rifare lo Stato”.
Come definirebbe il governo?
“Il governo rappresenta la Nazione e non i partiti. In Italia si è venuta formando una partitocrazia che non ha nulla a che fare con la democrazia, è una dittatura, un’oligarchia anonima peggiore di tutte le altre perché non assume le sue responsabilità. Il potere appartiene a questi organismi privati esterni che sono i partiti. Noi non possiamo farne parte. Sarebbe il colmo se dopo aver combattuto diventassimo sudditi e schiavi di queste baronie moderne. Questa è la Repubblica dei compari, sempre gli stessi, in tutti i governi”.
Lei però è stato ministro.
“Con De Gasperi sono stato ministro della Difesa. Erano i primi anni di questa Repubblica e non si avvertivano i difetti del sistema perché al governo c’era, appunto, un uomo come De Gasperi che non ha mai voluto trattare coi partiti. Avevo buoni rapporti con i democristiani. Nel 1959 Andreotti diventò ministro della Difesa e mi mandò un biglietto in cui mi annunciava, appunto, che andava alla Difesa. Diceva di essere “fiducioso nel tuo consiglio e nella tua collaborazione”. Erano altri tempi. Ma poi tutto è cambiato. E allora che Parlamento è, dove decidono tutto i capi dei partiti? Ricordo il senatore Merzagora dire che tanto varrebbe chiudere il Parlamento e fare un sinedrio ristretto per registrare la volontà dei partiti”.
La sorprende che i cattolici abbiano accettato di governare coi socialisti?
“Diciamo che ci sono cattolici che vogliono mescolare il sacro col profano e sollecitano l’autorità della Chiesa per puntellare il loro malfermo e poco commendevole dominio. Ma se io fossi Papa risponderei come fece Papa Leone quando il giovane imperatore luterano lo pregò di partecipare alle alleanze politiche.“Non tentare il Signore Dio tuo”, lo liquidò Papa Leone”.
Questo suo atteggiamento critico le procura attacchi feroci.
“Ah, certo. La partitocrazia si difende e attacca. Sento dire che ho fini personali, che voglio fare il de Gaulle, che sono qualunquista, che sono fascista. Lo dicono proprio quelli che durante il fascismo partecipavano alle più brutte manifestazioni del regime, compresi i comunisti. Sono proprio i profittatori del regime fascista che sono passati armi e bagagli nel regime partitocratico, sono essi che ci insultano”.
Torniamo indietro negli anni. Durante il fascismo lei riparò in Svizzera.
“Lugano. E’ passato tanto tempo. Trascorsi in terra elvetica sette dei miei anni di esilio. Ci sono tornato dopo la nascita della Repubblica. Avevo bisogno di poter parlare agli svizzeri e ai loro figli non come facevo allora, con la voce irata o lamentosa dell’esule, costretto dalla mia missione a portare discordie anche tra loro, ma come rappresentante di una libera Nazione venuto a festeggiare eventi di storia per molti aspetti comune. É stata l’occasione per chiedere indulgenza ai cittadini svizzeri verso i quali le passioni di allora mi portarono a essere unilaterale o addirittura ingiusto”.
La Svizzera ha significato molto per i dissidenti italiani.
“Tutti i proscritti del Risorgimento passarono per quelle terre, Ugo Foscolo, Pellegrino Rossi, Santorre di Santarosa, il Conte Porro, Gabriele Rossetti, i fratelli Ugoni, Giovanni Berchet, Pietro Giannone, Luigi Angeloni, Filippo Buonarroti, Biolchi, Tadini, Passerini, Prandi, la principessa Trivulzio-Belgioioso, il marchese Bossi, De Prati, Conte Pecchio e i Nathan, Rosales, Melegari, Picchioni, Bellerio, Cironi, Deboni, Mamiani, Gioberti, i fratelli Ciani, i fratelli Ruffini, Dall’Ongaro, De Mester, La Cecilia, Garibaldi, Grillenzoni,Vannucci, Carlo Cattaneo, Giuseppe Mazzini”.
Patrioti di varie ideologie.
“Moderati, rivoluzionari, monarchici, repubblicani, cattolici, anticlericali, federalisti e unitari, pensatori e uomini d’azione, aristocratici di alto lignaggio e popolani oscuri, ebbero in Svizzera le loro passioni, le loro lacrime, i loro slanci, i loro contrasti. Le tipografie pubbliche e clandestine, i giornali, le ville e talvolta i sotterranei furono al servizio della grande cospirazione. Al mio ritorno in Roma dopo diciotto anni di esilio, il primo pensiero fu scrivere un articolo in elogio della Svizzera”.
Parliamo di un altro capitolo del suo esilio, il periodo passato in Spagna al comando della Brigata Garibaldi durante la guerra civile. Sulla strada per Valencia, nel febbraio del 1937, durante la battaglia del fiume Jarama per difendere un ponte dalle milizie di Francisco Franco, lei subì ferite molto serie alla testa. C’è un filmato in cui si vede lei sanguinante mentre viene sorretto dal futuro leader socialista Pietro Nenni. La voce narrante di quel filmato è nientemeno che Ernest Hemingway. Dice che gli Italiani, specialmente nella battaglia di Brihuega, persero più uomini che in Etiopia.
“Dopo essere rimasto ferito, raggiunsi Parigi per farmi medicare. Ero in convalescenza nella capitale francese, ma decisi di tornare in Spagna e nel marzo del ’37 guidai la battaglia di Guadalajara, una città a 58 chilometri a nordest di Madrid”.
Quella fu una battaglia strana, combattuta da Italiani che si battevano contro altri Italiani in terra spagnola.
“Ed è finita con la vittoria per le armi repubblicane. La grande battaglia di Guadalajara, iniziata da quattro divisioni di Mussolini, si risolse in una sconfitta per i fascisti. I resti del corpo di spedizione fascista furono inseguiti sulle strade e sui monti. Come comandante del battaglione Garibaldi potei parlare a Radio Madrid di questa grande battaglia di Guadalajara che seguiva di pochi giorni la grande battaglia del Jarama”.
I fascisti sembravano sicuri di poter vincere.
“Credevano che l’armata repubblicana fosse esausta e senza riserve. Quattro divisioni italiane con centinaia di carri d’assalto, cannoni, mitragliatrici e camion speravano di prendere alla gola Madrid. Pensavano che ci avrebbero sconfitti. Noi eravamo molti esuli dispersi dal fascismo, molti erano venuti direttamente dall’Italia. Avevamo costituito un battaglione che aveva preso il nome di Garibaldi. Abbiamo ripreso l’idea garibaldina di rendere libera l’Italia da tutti i servaggi, dare forza e coraggio al proletariato italiano per conquistare da solo la liberazione economica e la libertà civile. Mentre il fascismo consumava tutte le risorse italiane in una beota religione della forza e in avventure internazionali dove rischiava da pazzo la rovina del Paese. Volevamo liberarci del fascismo, dopo l’Italia dell’Impero, dopo l’Italia del Papato, volevamo l’Italia del Popolo, tendente anch’essa ad un prestigio universale. Prestigio delle istituzioni libere, della redenzione della plebe, il prestigio dell’arte, dell’intelligenza, dei traffici, del lavoro, della pace”.
Dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, l’Italia si trovò sotto il controllo degli Alleati.
“Già, gli Alleati. Non tutto è andato per il meglio. Io fui chiaro. Dissi:Voi, governo inglese e americano, avevate preso impegni solenni verso il popolo italiano; avevate promesso di sostenerlo, nel caso in cui si rivoltasse contro il fascismo. Si è rivoltato. E tutti sanno come lo avete sostenuto. Avete perduto quaranta giorni nelle trattative col Re e con Badoglio che, come primo atto del loro nuovo regime di stato d’assedio, avevano fatto dimettere il comandante del Corpo d’armata di Milano perché non aveva avuto cuore di sparare contro il popolo e i capi della rivolta popolare”.
Cosa si aspettava?
“Bisognava mettere in disparte la monarchia, ci voleva un Comitato nazionale o un governo provvisorio formato da uomini non compromessi. Invece di essere prigioniero in un campo di concentramento, Badoglio è stato nominato capo del governo. Il governo ha lasciato confondere l’Italia fascista con l’Italia antifascista. In quel periodo l’Italia aveva bisogno di alte coscienze morali per risollevarsi dal fango e dal dolore”.
Questo tragico aspetto non è stato compreso dagli Alleati.
“Non hanno compreso che il responsabile della guerra non era un solo uomo. Con Mussolini era responsabile il Re, era responsabile lo Stato maggiore, era responsabile il principe Umberto. Se abbiamo l’ingiusta fama di essere un popolo imbelle, lo dobbiamo in gran parte a una casta militare piemontese, ristretta, boriosa e cogliona, che ha perso sempre tutte le guerre. Il Risorgimento si è fatto a forza di sconfitte monarchiche e vittorie popolari e garibaldine”.
Tuttavia verso gli Alleati, gli americani in particolare, bisogna essere riconoscenti.
“Non c’è dubbio. Se non ci fosse stato Roosevelt noi saremmo stati ancora a lungo sotto il tallone tedesco. Gli Stati Uniti hanno il supremo interesse di aiutarci a guarire il nostro continente malato e il solo modo di guarirlo radicalmente dalla sua follia guerriera è quello di organizzare gli Stati Uniti d’Europa”.
L’idea mazziniana dell’Unione europea.
“Non c’è alternativa. E’ possibile immaginare mondo in cui il problema europeo non sia risolto nel suo complesso? Tutte le soluzioni prospettate, all’infuori della Unità federale dell’Europa, saranno soluzioni incerte e pericolose. Per noi Italiani esisterà sempre il grave problema della mancanza di materie prime, ma nell’unità federale europea la cosa si risolverebbe: le materie prime che ci mancano ce le ha la patria europea. Le frontiere nazionali sono diventate anacronistiche. L’altro secolo fu il secolo delle unità nazionali, adesso è il secolo delle unità continentali. Ma anche qui mi è sembrato che negli Stati Uniti non tutti abbiano le idee chiare”.
A cosa si riferisce?
“L’America in fondo è stata vittima dell’inguaribile pazzia del nostro Continente. Avrebbe dovuto comprendere. Ma il ministro del Tesoro Morgenthau ha parlato di deindustriare la Germania e farne un Paese agricolo. Un progetto folle da pace di Cartagine che equivale alla distruzione della Germania e all’affamamento dell’Europa. Pensare di assicurare la pace e la sicurezza in Europa dividendo i tedeschi, disperdendoli in mezza Europa, ma questo sarebbe il modo sicuro per creare un altro nazismo”.