1949 – 9 FEBBRAIO – LA REPUBBLICA ROMANA
QUEL 9 FEBBRAIO
IN OCCASIONE DELL’ANNIVERSARIO DELLA REPUBBLICA ROMANA PUBBLICHIAMO UN POST
di Davide Giacalone
“Roma. Repubblica. Venite”. Neanche più nei quiz lo si ricorda, forse è considerata una domanda troppo difficile. Il messaggio fu lanciato da Goffredo Mameli (sì, proprio quello che scrisse l’inno della nazionale di calcio) ed indirizzato a Giuseppe Mazzini. Era successo l’incredibile.
Poche settimane prima, a Milano, il copione era stato diverso. Ad agosto, del 1848, il coraggioso Carlo Alberto aveva chiesto ai milanesi di lasciarsi invadere dagli austriaci ed il popolo gli aveva gridato del traditore. Popolo non certo più coraggioso, se è vero che così si rivolgeva a Radetzky: “Heil Radetzky! Semm minga staa num, hin staa i sciouri”. Ma le Cinque Giornate avevano effettivamente mobilitato il popolo, e tutti popolani erano i trecento morti elencati da Carlo Cattaneo (trecento insorti, a fronte dei quattromila morti nelle fila austriache).
Mazzini non volle piegarsi alla resa, si unì a Garibaldi, poi riparò in Svizzera. Anche nella confederazione venne inseguito dalle proteste austriache ed espulso. Sotto falso nome fu a Marsiglia, da qui s’imbarcò per Livorno. I giorni della riscossa erano vicini. L’oscurantismo papalino non tardò a reagire e Pio IX, da Gaeta dove era scappato si rivolse ai romani: “I liberali, i giacobini, i carbonari, i repubblicani non sono che sinonimi. Essi vogliono disperdere la religione e tutti i ministri. Noi dobbiamo invece disperdere sino le ceneri della loro razza”, che come dimostrazione d’amore cristiano, davvero, non c’è male.
I romani accolsero invece Mazzini, che per la prima volta metteva piede nella città sognata, entrando il 5 marzo dalla Porta del Popolo, il 9 febbraio l’Assemblea aveva proclamato la Repubblica Romana. Al centro della piazza, sull’obelisco, era stato posto il berretto frigio. La Roma che trovò ben rappresentava la sana amministrazione papalina, i cui emuli non si sono ancora estinti, benché non più papalini: era sporca, puzzolente, malsana, piena di mosche ed escrementi, con le rovine imperiali abbandonate a pascoli e vandalismi. Scrive Romano Bracalini che “Roma era una città di preti, di mignotte e di morti di fame la cui vita media non superava i trent’anni”. Lo Stato Pontificio aveva 2.732.000 abitanti, di questi 32.000 erano preti, i quali assorbivano un reddito di 85 milioni di scudi. Gli altri, i 2.700.000, dovevano dividersi 31 milioni. Giacomo Leopardi, pochi anni prima, aveva scritto al padre di sentirsi in pace ed al sicuro una volta giunto a Firenze, che a Roma, invece, non si poteva esser sicuri di rincasare vivi.
E se il papato non assicurava il benessere, le cose andavano anche peggio in quanto a giustizia. I preti non pagavano imposte e non potevano essere portati innanzi ad un tribunale, essendo quello ecclesiastico l’unico competente al loro riguardo. I cardinali, poi, non potevi neanche denunciarli al tribunale ecclesiastico, se non con il loro consenso. In questa situazione non è difficile comprendere il perché nessuno sentì la mancanza di Pio IX.
Certo, il papa manteneva una sua influenza internazionale, ed il primo sintomo preoccupante, per la Repubblica Romana, fu che un solo paese straniero la riconobbe: gli Stati Uniti d’America, che, però, non avevano l’influenza d’oggi.
Mazzini rifiutò i pieni poteri (era fumatore, ma non si hanno notizie sull’eventualità che abbia mai assaggiato il Mojito), non volle fare il dittatore e nacque il triunvirato, con Aurelio Saffi e Carlo Armellini. A Roma affluirono volontari e patrioti da ogni parte d’Italia e d’Europa. Cominciò il governo repubblicano, con il suo capo che lavorava a palazzo della Consulta e aveva preso casa a via Due Macelli, a due passi. Tutto in una modestia assoluta e maniacale, con ogni centesimo dedicato alla cosa pubblica, e con un unico elemento di dolcezza: fiori freschi tutti i giorni, sul tavolo, dono di una delle sue ammiratrici. Le prime decisioni furono simboliche ed importanti: abolita la pena di morte (il papa mandava volentieri gli oppositori al creatore); abolita la tortura; abolito l’arresto indiscriminato, possibile solo in flagranza di reato; abolito il tribunale del Sant’Uffizio, dispensatore generoso delle prime tre cose. Libertà d’espressione del pensiero e di stampa, naturalmente estesa ai giornali dell’opposizione che, difatti, non smisero mai di calunniare. Libertà religiosa, con rispetto dei cattolici e liberazione di quanti erano stati da loro perseguitati e rinchiusi, ebrei in testa. Pio IX reagiva dando a Mazzini del “comunista”, ma il triunviro rispondeva in modo più pacato e sensato di quanto non fecero poi altri, che comunisti effettivamente furono: “Il papa deve sapere che il comunismo (…) è avversato dai più fra i repubblicani e tenuto da noi siccome concetto antiprogressivo, ostile alla libertà umana”. Sapeva veder lontano, l’esule in Patria.
Dopo più recenti cerimonie ampollose e cretinerie profuse a sazietà, mi pare opportuno ricordare una decisione, diciamo così, extraterritoriale della Repubblica Romana: il Po fu dichiarato “fiume nazionale”.
La Repubblica fu tradita, dai francesi. Mazzini non lo avrebbe mai creduto possibile. Il papa li chiamò a difendere la cristianità e Luigi Napoleone, nipote del grande, sia pure affrontando una certa opposizione interna, accorse per garantirsi un impero. La storia lo ricorderà come “Napoléon le petit”. Le truppe francesi, capitanate da Oudinot, attaccarono il 30 aprile, ma a Porta cavalleggeri seimila francesi armati di tutto punto furono respinti e da Porta San Pancrazio Garibaldi uscì per attaccarli a colpi di baionetta. Una resistenza eroica, che costrinse i galli ad alzare bandiera bianca ed a ritirarsi. I romani caduti furono 69, mentre 250 i francesi, con 400 feriti e 300 prigionieri. Una disfatta. Ma qui Mazzini commise un errore di generosità, volendo credere alla lealtà di chi era anch’esso repubblicano ed anch’esso schierato sotto ad un tricolore.
Garibaldi avrebbe voluto inseguire i francesi e farli definitivamente a pezzi, Mazzini impose la moderazione, la trattativa, giunse a restituire i prigionieri, dopo averli curati ed assistiti, dopo averli rispettati come “bravi soldati della repubblica sorella”. L’eroe dei due mondi, imbufalito, si dedicò al fianco sud ed andò a sconfiggere i borboni di Napoli, che schieravano quasi solo mercenari.
I francesi finsero di trattare, presero tempo, mandarono spie a documentarsi sulle difese romane, alla fine, ed a tradimento, attaccarono la notte del 3 giugno. Morirono Dandolo, Masina, Mameli, Manara. L’eroismo dei romani non poté fermare il nemico del quale ci si era fidati, che tagliava le condutture d’acqua, che non si faceva scrupolo di colpire chiese ed ospedali. Il 3 luglio, dopo un mese furioso ed eroico, i francesi presero possesso della città. Conquistata, ma non domata, che seppe ancora parlare, come solo i romani sanno fare, per bocca di Pasquino:
Allons, enfants de sacrestie,
le jour de la hont est arrivé!
Par vous main de la tyrannie
L’étendard sanglant est sauvé …
Aux armes, sacristains! formez vos bataillons!
Marchons! Le pape est roi de droit de nos canons.
E nulla di peggio poteva cantarsi sull’aria della gloriosa marsigliese.
Il papa non brillò per coraggio, volle essere sicuro di non correre rischi e di non mettere a repentaglio il suo alto magistero, pertanto rientrò a Roma nell’aprile del 1850. Si congedò dal borbone Ferdinando chiamandolo figlio e ringraziandolo per la protezione. Ferdinando: un figlio degno del padre, un uomo che la storia ci consegna come “re bomba”, colui che nel 1848, per reprimere le rivolte siciliane, non aveva esitato a dar ordine di sbudellare i bambini, violentare le donne, distruggere le chiese, bombardare Messina, ridurre in macerie Catania.
Mazzini, al contrario del papa che tornò in ritardo, esitava ad andarsene, rimase anche dopo l’arrivo dei francesi, rimase per vedere quel che succedeva, per non separarsi dal sogno della Roma repubblicana. Temeva più per le proprie idee che per la propria pelle, al contrario del pontefice, che annetteva un sacro valore alla seconda.
Sì, lo sappiamo, son cose da polveroso museo risorgimentale, da visitarsi in gita scolastica e da dimenticare ancor prima di essere usciti. Onorare, al giorno d’oggi, la Repubblica Romana? Ma è roba da pazzi! Eccoci.